di Pietro Stefani
Per quanto le nuove religioni (shinshūkyō) rappresentino un fenomeno innovativo all’interno del panorama religioso giapponese a cavallo tra il XIX e XX secolo, è tuttavia innegabile che nel tentativo di organizzare e legittimare i propri discorsi e rituali queste ultime abbiano attinto, in misura più o meno evidente, anche a elementi religiosi già attestati e consolidati attraverso lo Shintō e il Buddhismo. Nel caso di Ōmotokyō, questa tendenza risulta particolarmente rilevante quando si osserva la natura del rapporto intercorrente tra i due co-fondatori Deguchi Nao e Onisaburō, le cui funzioni e i ruoli rituali ricoperti all’interno del culto, pur inserendosi nella falsa riga della relazione tra miko e yamabushi delineatasi durante il periodo classico della storia giapponese, ne ereditarono tuttavia anche una serie di problematicità che irrimediabilmente condizionarono lo sviluppo ed il futuro del movimento stesso. È pertanto l’obiettivo di questo elaborato mettere in luce tali elementi critici, prestando particolare attenzione a come l’applicazione di questo tipo di pattern nel sistema rituale di Ōmotokyō abbia finito per riprodurre, seppur con forme e condizioni relative al caso specifico, le stesse dinamiche di un ben più storico e radicato conflitto di genere: una lotta per il controllo del piano extra-umano e sovrannaturale della possessione spiritica (kamigakari), l’unica dimensione di cui la parte femminile possa servirsi in maniera efficace nella ribellione contro un ordine costituito ad esclusivo appannaggio maschile.
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